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Forse l’unica cosa peggiore di non avere talento, è sprecarlo. E le aziende lo fanno continuamente: cercano i migliori cervelli, li selezionano, li assumono. Ma poi non riescono a valorizzarli, a servirsi delle loro competenze ed energie, a coltivarne ambizioni e potenzialità. Così rischiano di rimanere indietro, di perdere terreno in un mercato sempre più competitivo, di non innovare. E a volte, di combinare dei disastri. “Si dotano di dipendenti qualificati, ma non li sanno ascoltare, come se sfruttassero solo metà della loro intelligenza e qualità. Perché molte organizzazioni non riescono a creare quell’ambiente di lavoro ‘fearless‘, senza paura, dove i lavoratori sono liberi di esprimere le loro idee, di fare domande, di mettere in dubbio, di sbagliare, senza il timore di essere marginalizzati, umiliati e rimproverati da capi e colleghi”, spiega a Business Insider Italia la studiosa Amy C. Edmondson, Novartis Professor of Leadership alla Harvard Business School.

Amy C. Edmondson

In un contesto lavorativo che cambia continuamente, c’è sempre meno spazio per compiti routinari e processi ripetitivi, per l’esecuzione passiva di direttive calate dall’alto. Servono invece persone che risolvano problemi continuamente, che siano in grado di operare in autonomia, di assumersi responsabilità, ma soprattutto di parlare e tirare fuori le proprie idee. In altre parole, ciò che fa la differenza tra successo e fallimento di un’impresa è proprio il modo in cui vengono impiegate le risorse umane: non basta assumere persone motivate e competenti, se poi queste non contribuiscono al superamento dei momenti critici offrendo punti di vista e soluzioni. “E spesso non lo fanno perché hanno paura di commettere errori e di essere puniti, oppure di offendere il proprio capo o di danneggiare la propria immagine in azienda. In questi luoghi di lavoro manca la sicurezza psicologica, cioè quell’atmosfera in cui i dipendenti possono condividere preoccupazioni e dubbi senza sentirsi in imbarazzo o temere di essere incolpate di qualcosa”, continua l’esperta, tra i pensatori più influenti nel business del Thinkers50, che proprio al tema della sicurezza psicologica ha dedicato il suo ultimo lavoro “Organizzazioni senza paura“.

Organizzazioni senza paura, Amy C. Edmondson

Quando le persone subiscono questa paura, non riescono a partecipare attivamente al lavoro di squadra, preferiscono eseguire ordini e non danno il loro apporto al processo decisionale. “Ma questo non funziona nell’attuale economia della conoscenza, in un mondo dove l’innovazione conta. Tenere la testa bassa e fare passivamente quello che ci viene detto non è la strada giusta per andare avanti e avere successo. Un’azienda potrebbe dire: ‘Siamo felici di averti, ma non così tanto come lo saremmo se tu fossi quel tipo di persona che aggiunge qualcosa di nuovo alla conversazione’”, puntualizza la professoressa, che aggiunge: “Oggi la maggior parte dei ruoli richiede una certa capacità di problem solving e non penso sia un’esagerazione dire che molti di noi passano tutto il giorno a risolvere problemi. A volte possiamo arrivare alla soluzione autonomamente; altre volte, invece, abbiamo bisogno di collaborare con persone dotate di differente expertise. Queste relazioni di lavoro non nascono dal nulla, si creano gradualmente. Ma in un ambiente che non è psicologicamente sicuro, sarà più difficile fidarsi dei colleghi o sentirsi liberi di esprimersi in modo schietto ed essere se stessi”.

La paura relazionale, che ci impedisce di aprire bocca e condividere le nostre idee, è uno stato d’animo che ha radici profonde e che dipende anche dalla società in cui siamo nati e cresciuti. Nessuno vuole sembrare ignorante o incompetente, a scuola, sul lavoro, nella vita. Questi sono definiti nel libro come rischi relazionali, e tutti noi li evitiamo fin da piccoli perché vogliamo risultare intelligenti o utili agli occhi degli altri. Come scrive l’autrice:

A un certo punto, alle elementari, i bambini iniziano a rendersi conto che l’opinione che gli altri hanno di loro ha un certo peso e imparano ad abbassare il rischio di essere rifiutati o presi in giro. Da adulti, di solito, siamo ormai bravi a farlo, così bravi che non ne siamo più consapevoli. Non vuoi sembrare ignorante? Allora non fare domande. Non vuoi sembrare molesto? Non dare mai suggerimenti. Però, se privilegiare un’apparenza positiva rispetto a un intervento che può fare la differenza può funzionare in occasione di un evento sociale, sul lavoro questa tendenza può portare a problemi significativi, dalla mancata innovazione a servizi di basso livello, fino a casi estremi in cui si paga con la vita umana. Eppure, nella maggior parte dei contesti professionali, evitare comportamento che potrebero peggiorare la nostra reputazione agli occhi degli altri è praticamente un automatismo.

“Viviamo in un tempo in cui non è consentito commettere sbagli, ma errare è umano e dobbiamo saper perdonare”, fa notare la Edmondson. Che precisa: “Sia detto per inciso: se ad esempio una persona commette sempre lo stesso errore in ufficio, questo non è accettabile e probabilmente quel ruolo non è adatto per le sue capacità. Ma in ambiente di lavoro privo di sicurezza psicologica, l’errore e la paura di sbagliare impediscono al lavoratore anche di talento di comunicare le proprie esitanti idee, di fare domande, di condividere preoccupazioni”. E questa tendenza condiziona negativamente la sua performance, danneggia l’azienda e, a volte, può portare a dei disastri.

Ufficio, Londra – Oli Scarff/Getty Images

Nel suo libro, la professoressa fa anche alcuni esempi per mostrare le conseguenze di un ambiente di lavoro caratterizzato da una cultura di scarsa sicurezza psicologica. In Volkswagen, la cattiva pratica di sfruttare la paura per motivare i dipendenti e la decisione di alzare troppo l’asticella nella definizione degli obiettivi da raggiungere ha contribuito a provocare lo scandalo del Dieselgate. La falsificazione delle emissioni delle vetture con motori diesel attraverso un software, in modo da rispettare i limiti all’inquinamento previsti negli Stati Uniti e raggiungere il volume di vendite che avevano immaginato i leader del gruppo tedesco, forse si sarebbe potuta evitare “se gli ingegneri avessero lavorato in un ambiente psicologicamente sicuro, con la possibilità di comunicare la ‘brutta notizia’ che un motore diesel pulito secondo i requisiti richiesti non era semplicemente fattibile”, scrive la studiosa, ricordando che “lo stesso copione – obiettivi impossibili, una gerarchia fondata sul comando e il controllo che usa il terrore per motivare i dipendenti che temono di perdere il lavoro se sbagliano qualcosa – si è ripetuto spesso”, portando a fallimenti evitabili.

L’ex numero uno di Volkswagen, Winterkorn, testimonia in una audizione al Bundestag sul Dieselgate, gennaio 2017 – foto di Sean Gallup/Getty Images

Ovviamente, la sicurezza psicologica è una delle condizioni che permette alle aziende di porre basi più solide per il suo futuro. “Ma non deve essere considerata coma una panacea, una cura per tutti i mali”, ci dice la professoressa Edmondson, che spiega: “In un VUCA world, un mondo caratterizzato da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità, al netto di altri fattori che mettono a repentaglio il successo di un’impresa (come un capo incompetente), il lavoro dei membri dell’organizzazione può essere influenzato negativamente dalla paura interpersonale”.

Sia i manager che i dipendenti devono contribuire alla creazione di un ambiente di lavoro sicuro, fearless. I leader devono mettere in chiaro quello che si sta facendo e i problemi che si stanno affrontando. E poi invitare gli altri a intervenire nel dibattito, a ragionare e a proporre soluzioni. “Bisogna indicare le sfide da affrontare. Magari sono problematiche note in azienda, ma è necessario parlare ad alta voce e definirle chiaramente, in modo da essere tutti sulla stessa lunghezza d’onda. E poi si parte chiedendo agli altri cosa ne pensano, quali idee hanno in mente, quali preoccupazioni li tormentano”, continua la studiosa, ribadendo che “lo strumento più semplice è fare buone domande. E fare buone domande significa focalizzarsi su questioni specifiche, chiedendo a lavoratori e collaboratori idee e progetti rilevanti per quel particolare tipo di problema affrontato. Bisogna ragionare insieme su ciò che è andato storto e provare a sistemarlo”.

Ma anche ai dipendenti è richiesto uno sforzo di partecipazione, di lavoro di squadra, di condivisione. E se risulta difficile, se non ci viene naturale, è importante allenarsi a esprimere le nostre convinzioni e idee senza paura: “Non si cambia certo rapidamente, con uno schiocco di dita. Se sei riluttante a dire ciò che pensi in una discussione, il miglior modo per iniziare a farlo è gradualmente, partendo con le cose più semplici, affrontando rischi più piccoli. Ti renderai conto che non era poi così male, così spaventoso, e continuerai a farlo. Se poi c’è qualcuno in cui riponi fiducia, perché non condividere prima con lui le tue idee o preoccupazioni, per poi offrire lo stesso aiuto a tua volta quando se ne presenterà l’occasione?”.

Sarà sicuramente più difficile lanciarsi in un contesto lavorativo tossico, dove la presenza di un capo incapace o di colleghi invidiosi, che infastidiscono o giocano sporco, non contribuiscono certo a creare un clima di lavoro sano. “Non bisogna mai farsi condizionare e trascinare in queste dinamiche. E se proprio è impossibile, e capisci che non c’è modo di lavorare al meglio in questo contesto, forse potrebbe essere arrivato il momento di andare via e cercare un altro impiego in un’altra azienda”.

Agf

La sfida di una maggiore condivisione e partecipazione è certo resa più complicata dalla pandemia di Covid-19, che ha spinto tante persone a lavorare da casa. Ma anche in smart working, i principi della sicurezza psicologica possono essere applicati: “Certo la tentazione a nascondersi dietro uno schermo e ascoltare passivamente è sicuramente più forte. Per questo anche nelle riunioni organizzate in video call è necessario invitare tutti alla discussione, a esprimere idee e proposte”.